Oggi vi voglio raccontare la storia di Suor Bernadette, che faceva parte di una ricerca effettuata da David Snowdon dell'Università del Kentuky nel 1986. In questo progetto di ricerca le suore appartenenti al convento delle School of Sisters of Notre Dame erano periodicamente sottoposte a dei test mentali, come ad esempio quanti animali riuscivano a ricordare in un minuto, quante monete contavano correttamente, ed altre test cognitivi.
Le suore furono seguite nel corso di molte molti anni e accettarono di donare il cervello alla scienza dopo la loro morte.
Suor Bernadette si rivelò un caso molto particolare: in gioventù si era laureata, aveva insegnato alle scuole elementari per 21 anni e alle superiori per altri sette. Dopo gli ottant'anni aveva superato brillantemente qualunque test cognitivo e a 85 anni morì d'infarto: come da disposizioni il cervello fu inviato in laboratorio per essere analizzato e a prima vista sembrava un encefalo in buona salute. Solo dopo ho l'analisi al microscopio il professor Snowdon scoprì che il morbo di Alzheimer era ovunque e le placche intasavano sia l'ippocampo che la neocorteccia e raggiungeva i lobi frontali mostrando che nella scala di gravità suor Bernadette raggiungeva il livello 6, considerato il massimo grado di malattia. Questo suscitò non poca sorpresa perché nonostante le placche di malattia, le sue funzioni cerebrali erano perfettamente conservate come se nel suo passato il cervello avesse trovato una protezione dalla demenza. Analogo il caso di un anziano professore di Londra soprannominato “lo scacchista”, che notò un un certo declino mentale: mentre da giovane riusciva a calcolare sette mosse del gioco in anticipo, con l'età anziana scoprì di calcolare in anticipo solo quattro mosse. Si rivolse allora l'Istituto di neurologia dell'University College di Londra e dopo una batteria di test per individuare la demenza e una TAC lo rimandarono a casa senza diagnosi di malattia. Quando qualche anno dopo il professore morì, l'autopsia rivelò che il suo cervello era pieno di placche e di aggregati di neurofibrillari tipici dell'Alzheimer: il professore era affetto da una forma di demenza senile avanzata, ma per anni non aveva mostrato alcun segno esteriore della malattia. Queste straordinarie scoperte, alle quali si sono aggiunti altri casi, hanno portato alla definizione dell'esistenza di una “riserva cognitiva” ossia la possibilità di funzionare nonostante la malattia. I dati furono confermati da uno studio di Robert Katzman che nel 1988 studiò un gruppo di anziani residenti in una casa di riposo. Un gruppo di pazienti, pur presentando delle lesioni istologiche tipiche della malattia di Alzheimer, erano funzionalmente e cognitivamente efficienti quanto quelli del gruppo di controllo. L'analisi di questi risultati, confrontata con i fattori di rischio quelli protettivi, hanno hanno mostrato che il maggiore fattore di capacità mentale extra è l'istruzione che offre una protezione generale nei confronti del cervello. Il che non gli impedisce di danneggiarsi, ma lo protegge dalle manifestazioni esteriori della malattia. Le ipotesi su come l'istruzione agisca e ancora ha poco chiara la giornalista ha americana Gina Kolata sostiene che l'istruzione insegna la gente a rimandare la gratificazione e quindi a rinunciare ad abitudini negative come un'alimentazione troppo ricca di zuccheri e grassi o al fumo. Personalmente invece sostengo che l'istruzione rappresenti una vera è propria palestra per i giovani neuroni che imparano a reagire agli stimoli e si allenano ad una plasticità che può essere recuperata in età anziana.
Uno scienziato del Columbia College di New York studiò e pubblicò la sua ricerca nel 1994 scoprendo che le persone che avevano studiato per meno di otto anni da ragazzi avevano una probabilità doppia di andare incontro alla demenza. Allo stesso modo funzionavano le attività stimolanti cerebrali quindi la scrittura la lettura, la ricerca, l'elaborazione di informazioni ma anche attività del tempo libero come passeggiare, far visita agli amici, diminuivano del 38% il rischio di ammalarsi di Alzheimer. Un altro studio a lungo termine ha fatto emergere che le persone che avevano un rapporto molto ricco con il loro ambiente godevano di un minor declino intellettuale in un lasso di 14 anni, al contrario di quello che accadeva con un gruppo di vedove che non aveva mai lavorato e che faceva una vita solitaria. Sembra quindi dimostrato che avere un'attività intellettuale vivace e una vita sociale intensa influisca sulle nostre prestazioni mentali e rappresenti una protezione per la vecchiaia.
Nonostante queste evidenze è possibile continuare a coltivare la riserva cognitiva perché ormai sappiamo che l'esperienza altera in positivo le funzioni e le strutture cerebrali. Ci si può allenare: impegnandosi in attività fisiche e mentali che prevedano un discreto livello di problematicità e difficoltà è possibile attivare la neuroplasticità. Per approfondire di consiglio la lettura del libro “I tuoi anni migliori devono ancora venire" edito dai tipi di Mondadori.
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