Quello ha ‘una memoria da elefante’, quante volte lo abbiamo
sentito dire? Ma perché gli elefanti avrebbero una memoria più potente di altri
animali? E’ davvero così? In realtà questi grandi mammiferi se la battono in
tema di capacità di ricordare con i cetacei, le grandi scimmie e, guarda caso,
anche con noi umani.
Oggi sappiamo che la capacità di ricordare è legata alle
emozioni (ricordiamo più facilmente se un fatto è legato ad un’emozione) e
ancor di più all’empatia ossia alla capacità di mettersi nei panni dell’altro.
Se ormai sono stati svelati i segreti dei cosiddetti ‘neuroni specchio’
identificati tra l’altro da uno scienziato italiano, da pochissimo si indaga su
una classe di neuroni chiamati VEN dal nome del loro scopritore, Constantin Von
Economo che fu il primo nel 1926 a fornirne la prima descrizione dettagliata e
la localizzazione.
Si tratta di grandi neuroni fusiformi presenti nella
corteccia frontoinsulare e in quantità inferiore nella corteccia cingolata
anteriore, specializzati nella trasmissione di informazioni legate al
comportamento sociale ad alta velocità e su lunghe distanze. In pratica
percepiscono gli stati fisiologici dell’organismo e li elaborano sotto forma di
processi di decisione.
L’aspetto interessante è che questi neuroni sono presenti solo
nelle specie con il cervello grande – modestamente… - e che si attivano in
presenza di stimoli sociali negativi come colpa, imbarazzo o risentimento, ma
si attivano anche quando il soggetto non sia direttamente coinvolto ma provi
empatia per un membro del branco.
La scoperta della presenza di questi neuroni negli elefanti
è ben descritta nello studio di Hakeem (Von
Economo Neurons in elephant brain – The anatomical record – 292;242-248:2009)
mentre negli umani Tania Singer ha scoperto che ci immedesimiamo negli altri
quando soffrono grazie all’attivazione dell’insula anteriore, zona che
probabilmente non vi dice nulla ma che è quella con cui percepiamo il nostro
stesso dolore.
I neuroni VEN non solo si attivano – esattamente come negli
elefanti – in situazioni spiacevoli come rabbia e afflizione (ma anche in
situazioni piacevoli come le cure parentali, le coccole e l’amore) ma sono in
grado di marcare un evento come importante e concentrare la nostra attenzione
su di esso in modo da reagire adeguatamente in maniera estremamente veloce. Una
sorta di autostrada cerebrale che coordina le nostre emozioni con quelle degli
altri individui del nostro ‘branco’, umano o animale che sia. E in alcune
situazioni patologiche come demenza, autismo, Alzheimer e schizofrenia
risultano inattivati.
Purtroppo sembra che questi neuroni rischino di essere ‘fuori
moda’ in un’epoca in cui spesso la gente dimostra indifferenza per la sorte
immediata dei propri simili. Si tratta di un circolo vizioso: siamo talmente
assorti nei nostri pensieri (e nei nostri smartphone) che non prestiamo
attenzione agli altri, quindi rimaniamo isolati e non abbiamo la possibilità di
provare empatia. Il paradosso è che però siamo capaci di commuoverci davanti ad
un film, nel buio di una sala o del nostro salotto. Perché? Perché in quel
momento siamo totalmente attenti e dedicati a quel che accade sullo schermo.
Le persone in cui queste aree cerebrali sono troppo attive
rischiano di rimanere troppo coinvolte nel dolore altrui, di rimanere
invischiate. Succede ad esempio nelle professioni di aiuto in cui si può
verificare uno stato chiamato ‘stanchezza della compassione’, ma rischia anche
chi si protegge dalla sofferenza anestetizzando i propri sentimenti, magari
girando la testa dall’altra parte. Il problema è che sottraendosi continuamente
alle emozioni di rischia di erodere e ‘spegnere’ la capacità di provare
compassione per gli altri e rimanere vittime di una desolante indifferenza. Come
spesso accade se non utilizziamo un organo o una funzione questa si atrofizza.
(Si ringrazia per il titolo Valeria Ghitti)
1 commento:
Ciao, è possibile mettersi in contatto con lei!?
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