sabato 21 febbraio 2009

L'ottavo peccato capitale

Dicono sia il diniego, l'indifferenza, la capacità di girare la testa dall'altra parte e far finta che nulla sia accaduto. Alcuni sostengono che siamo troppo concentrati su noi stessi, altri che basterebbe prestare più attenzione a quello che ci circonda, altri ancora sostengono che siamo assuefatti all'orrore, alla violenza e che quindi il cervello si difende e non soffre più. Lo spiega il suo autore nel bellissimo testo "Stati di negazione" edito da Carocci qualche anno fa e poi Umberto Galimberti nel più recente "I vizi capitali e i nuovi vizi"Sommerci dalle immagini di violenza che si riversano sulle nostre tavole all'ora di cena non abbiamo alternative che l'indifferenza. Non ci può colpire tutto, non ci può travolgere di sdegno ogni stupro. Ad un certo punto non ti sorprendi più. Diventa, tragicamente 'normale' e il giornalismo non lo ha ancora capito con la sua mania di seguire i 'filoni'. Se prima erano i pittbull e poi i treni che deragliavano (fateci caso, non deraglia più nulla), se poi sono stati gli ascensori che cadevano ad ogni pié sospinto, ora è il momento delle violenze sulle donne. Non che non debbano essere riportate, ma la sovraesposizione non giova affatto. Nella piazza mediatica inoltre regna la lotta tra chi sostiene che esiste e chi non, facendoci dubitare di molte cose. L'ultima, in ordine di tempo, la Shoah, l'Olocausto. Chissà se a qualcuno in fondo è venuto il dubbio sia accaduto davvero. Siamo figli dell'epoca del dubbio dove anche la storia perde la sua forza. E mentre gli scenziati scrivono sempre più libri sui neuroni specchio, strutture cerebrali deputate all'empatia, noi ne proviamo sempre meno. Un ossimoro. Siamo chiusi ognuno in una propria bolla narcisistica, dicono. Eppure di fornte a grandi calamità la società si mobilita in massa e dona somme di denaro pari a PIL di paesi industriali. E allora io credo che sia l'esposizione eccessiva a causare il diniego, come forma di difesa di fronte ad un orrore che può apparire in tv 24 ore su 24. Le nostre città, atomizzate, con famiglie mononucleari, non aiutano. Anche vedersi per il the diventa un'impresa. In Africa invece la solidarietà e la condivisione sono fondamentali alla sopravvivenza: senza l'apporto di tutti si soccombe. Allora è qui il nodo fondamentale, oltre al minimo bisogno di contatto umano e sociale che si esplica all'interno della famiglia, se siamo economicamente indipendenti diminuiscono le nostre esigenze.

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