Gli attacchi terroristici hanno un effetto sulla salute mentale anche delle persone che non sono direttamente coinvolte o se gli eventi sono lontani nel tempo. Lo ha rivelato un team di ricercatori dell’University College di Londra che ha esaminato gli studi esistenti sull’argomento. Insomma, hanno scoperto che dopo un attacco terroristico in un’area cittadina dall’11 al 13% della popolazione può soffrire di stress post-traumatico nelle sei settimane successive.
Nei soggetti coinvolti direttamente, invece questa percentuale sale al 30-40% e almeno il 20% fa esperienza dei sintomi nei due anni successivi. Questi includono pensieri intrusivi, incubi, disturbi del sonno e umore irritabile.
L’analisi della popolazione di New York dopo l’11 settembre ha svelato che il nel 5% della popolazione cittadina i postumi della paura sono stati tali da compromettere lo stile e la qualità di vita delle persone per più di sei mesi dalla tragedia. Il 28% dei bambini newyorkesi ha sviluppato agorafobia, ansia da separazione e stress. Nonostante queste reazioni siano, in fondo, normali, la gente pensa di dover tornare subito alla normalità. Ma il timore e il senso di pericolo va elaborato, processo che può aver bisogno di tempo, talvolta anche di mesi, un meccanismo del nostro cervello che dopo un attacco grave al senso di sicurezza tende a rimanere in uno stato di “allerta” permanente.
Vorrei sottolineare in questa occasione come ci siano dei soggetti particolarmente sprovvisti di strumenti cognitivi per affrontare grandi stress. Si tratta dei bambini, che possono essere notevolmente impressionati da fatti che accadono anche molto lontani da noi ma le cui immagini, trasmesse dai telegiornali, rimangono impresse nella loro mente, provocando timori e paure che spesso hanno timore a confidare. Ricorderemo come le immagini televisive dello tsunami hanno sconvolto e spaventato parecchi bambini. E come le immagini di violenza dei telegiornali della sera siano talora eccessive rispetto alla loro capacità di capire e forse alla nostra, come genitori, di spiegare.
Nei soggetti coinvolti direttamente, invece questa percentuale sale al 30-40% e almeno il 20% fa esperienza dei sintomi nei due anni successivi. Questi includono pensieri intrusivi, incubi, disturbi del sonno e umore irritabile.
L’analisi della popolazione di New York dopo l’11 settembre ha svelato che il nel 5% della popolazione cittadina i postumi della paura sono stati tali da compromettere lo stile e la qualità di vita delle persone per più di sei mesi dalla tragedia. Il 28% dei bambini newyorkesi ha sviluppato agorafobia, ansia da separazione e stress. Nonostante queste reazioni siano, in fondo, normali, la gente pensa di dover tornare subito alla normalità. Ma il timore e il senso di pericolo va elaborato, processo che può aver bisogno di tempo, talvolta anche di mesi, un meccanismo del nostro cervello che dopo un attacco grave al senso di sicurezza tende a rimanere in uno stato di “allerta” permanente.
Vorrei sottolineare in questa occasione come ci siano dei soggetti particolarmente sprovvisti di strumenti cognitivi per affrontare grandi stress. Si tratta dei bambini, che possono essere notevolmente impressionati da fatti che accadono anche molto lontani da noi ma le cui immagini, trasmesse dai telegiornali, rimangono impresse nella loro mente, provocando timori e paure che spesso hanno timore a confidare. Ricorderemo come le immagini televisive dello tsunami hanno sconvolto e spaventato parecchi bambini. E come le immagini di violenza dei telegiornali della sera siano talora eccessive rispetto alla loro capacità di capire e forse alla nostra, come genitori, di spiegare.
Alle 20 a casa mia si cambia canale, e si vedono dei cartoni animati, un piccolo modo per proteggere un cervello di 7 anni da una brutalità gratuita e sottolineata. In un bellissimo libro di Stanley Cohen intitolato “Stati di negazione” (Carocci) l’autore afferma che siamo talmente circondati da immagini di dolore e morte che non abbiamo più nessuna reazione. Siamo assuefatti e quindi il dolore altrui non suscita più alcuna empatia. La spettacolarizzazione del dolore e della morte, ci rendono più insensibili, una forma di difesa del nostro cervello rispetto ad una gratuità, almeno per me , insopportabile.
Ma io mi proteggo da sola e giro canale.
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