domenica 18 febbraio 2007

Cavie umane...uomoni o topi?



Nell’ultimo anno abbiamo assistito ad una moltiplicazione esponenziale dei libri e dei saggi che puntano il dito sulle industrie farmaceutiche, sui meccanismi che Big Pharma utilizza per vendere i farmaci, sulla corruzione dei medici ‘comprati’ a suon di convegni in luoghi esotici e sull’assunzione di opinion leader che, come testimonial, non solo vengono pagati migliaia di dollari, ma diventano veri e propri azionisti. La pentola del conflitto di interessi insomma ribolle e così l’interesse di giornalisti e osservatori di un fenomeno sempre più sfacciato.

Di certo non possiamo boicottare le industrie farmaceutiche, se abbiamo mal di testa prendiamo un analgesico, se abbiamo un tumore, a maggior ragione tenteremo di curarci al meglio delle possibilità. Ma forse dobbiamo essere un po’ più consapevoli, per saper scegliere meglio. Conoscere per decidere.

Sonia Shah è una rinomata scrittrice e giornalista d’inchiesta che scrive per The Washington Post, The Boston Globe, New Scientist e The Nation. Sa ciò di cui parla e si è guadagnata una prefazione scritta da John Le Carrè, romanziere, si, ma di un libro ‘Il giardiniere tenace’ che indagava e portava alla luce, proprio la parte più nascosta e segreta di una industria controversa.

Sonia Shah alza il velo sui meccanismi della sperimentazione, su quel lungo processo necessario alla immissione in commercio di un farmaco. Dai dati della sperimentazione dipende il futuro di un farmaco e l’autrice non solo fa a pezzi i meccanismi base della ricerca, ma rivela come in Occidente sempre meno persone siano disponibili a fare da cavie per un farmaco nuovo. La soluzione geniale è quindi quella di eseguire i trials clinici più rischiosi su gente che si ritiene non abbia niente da perdere, come i cittadini del Terzo Mondo. I giganti del farmaco bussano quindi alle frontiere di India, Cina, Russia alla ricerca di cavie umane, a buon mercato e soprattutto che non siano ben consapevoli dei propri diritti.

La tendenza delle grandi multinazionali a condurre sperimentazioni sull’uomo nei paesi poveri è ancora all’inizio, ma i maggiori produttori mondiali già conducono tra il 30% e il 50% dei loro esperimenti al di fuori degli USA e dell’Europa Occidentale e secondo l’USA Today, avevano in progetto di arrivare al 67% entro il 2006.
D’altro canto nei paesi più poveri ci sono orde di pazienti privati della possibilità di accedere a farmaci necessari alla loro sopravvivenza e ospedali strangolati dalla mancanza di denaro liquido.
Il paradosso è che in questi paesi vengono sperimentati farmaci contro colesterolo, depressione e disfunzione erettile su gente che ha bisogno di medicine per la TBC e la malaria. Insomma su di loro ma non per loro, su gente che ha ancora problemi come le malattie infettive dovute alla mancanza di acqua potabile e cibi non contaminati. Mentre i farmaci che aiuterebbero queste popolazioni sono molecole economiche e assolutamente non appetibili per le industrie.

Gli alti tassi di cancro all’utero dell’Ungheria o il cancro al polmone in Polonia sono dati che fanno sfregare le mani ai direttori della ricerca, la cui causa è dovuta alla mancanza di risorse dei governi per tutelare la salute pubblica (per non parlare del fatto che i paesi dell’Est sono falcidiati dall’Aids).

Per lanciare sul mercato un singolo farmaco un’azienda ha bisogno di più di 4000 pazienti a sottoporsi ciascuno a più di 140 procedure mediche in oltre 65 diversi esperimenti. Per gli screening iniziali servono almeno 100mila persone. La spesa per ogni paziente che aderisce alla sperimentazione è di circa 1500 dollari e bisogna considerare che circa il 90% dei farmaci non ottiene l’approvazione della FDA il che si traduce in una perdita secca. Il risultato è che minimizzare i costi è una esigenza fondamentale.

Ma tra i pazienti occidentali c’è sempre meno disponibilità a partecipare ad un trial, sia pure pagati: meno di un americano su 20 sarebbe disposto a partecipare ad un trial clinico e anche tra i malati di cancro (la categoria che avrebbe più da guadagnare dai nuovi trattamenti sperimentali) meno del 4% partecipano come volontari.

Per aggirare questo ostacolo le industrie si affidano alle CRO (Contract Research Organizations) che dietro un sostanzioso compenso forniscono soggetti e risultati. Come? Al di fuori degli Stati Uniti perché alla FDA non interessa affatto dove si sia svolta la sperimentazione.
E questo è solo l’inizio, in 215 pagine l’autrice spalanca una finestra su quello che potremmo definire un incubo etico. (Cacciatori di corpi – Nuovi Mondi Media)

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