giovedì 8 febbraio 2007

Soli è peggio


Saltellare tra una rivista scientifica e l’altra è il mio lavoro e anche il mio piacere. Soddisfa la mia curiosità e talvolta conferma ciò che penso.
Il solito studio americano ha svelato che le persone anziane sole corrono un rischio doppio di sviluppare malattie neurodegenerative come l’Alzheimer. La ricerca ha preso in esame 800 soggetti per 4 anni circa. Sapevamo già che l’isolamento sociale era correlato ad un maggiore rischio di demenza, ma credo sia più interessante che si tenti di fare una analisi del perché un fattore sociale e psicologico possa provocare una malattia così complessa e dalle basi rigidamente organiche. E’ possibile azzardare delle ipotesi meramente speculative, per il piacere di farlo.


Di certo l’isolamento sociale non fa bene alla salute (è già stato visto che i vedovi non risposati muoiono prima di quelli che hanno una nuova compagna e che il matrimonio in genere - ho detto 'in genere' non 'sempre') ha effetti positivi sulla salute di entrambi). Mancanza di parenti e amici, di relazioni significative, significa mancanza di stimoli, isolamento, ripiegamento se stessi, senso di abbandono, sensazione di fine imminente, stress e depressione. La solitudine peggiora le funzioni cognitive, in fondo se parliamo con gli altri dobbiamo sforzarci di capirli e di farci capire. Dobbiamo avere argomenti, e quindi essere interessati a qualcosa. Già questa è una ginnastica.


Esiste poi un lato legato all’animale sociale che siamo. Gli altri danno un senso alla nostra vita perché ci riconoscono, e perché se ci riconoscono noi allora esistiamo. Molto di quello che sentiamo di essere deriva di certo dall’immagine che gli altri rimandano di noi stessi. Pensateci. Se nessuno ci cerca, se nessuno ha a cuore come stiamo o, peggio, se siamo ancora vivi è ben difficile andare avanti. Ci si perde e il cervello si difende da ciò, andando in stand by. Ma non stanno peggio solo gli anziani davvero soli e isolati, ma quelli che si ‘sentono’ soli, quelli che si lamentano in continuazione e che anche se li chiami si lamentano perché non li chiama mai nessuno, senza capire che se ti annoiano con le lamentele sarai sempre meno invogliato a chiamarli o ad andarli a trovare.


Questo fa parte dello stile cognitivo di ciascuno, ossia la modalità di percepire se stessi e il mondo circostante. Arriva un momento in cui molti anziani prendono atto di questa ‘anzianità’ e mollano il colpo, la sensazione di essere inutili è schiacciante. In realtà possono fare ancora molto per noi, raccontarci il passato, tramandarci le esperienze. Condividere i ricordi. Quelli che si abbandonano all’autocommiserazione smettono di coltivare i propri interessi, siano anche dipingere o coltivare i ciclamini sul terrazzo. Si abbandonano sul sofà di fronte alla tv, diventano passivi e mettono “a nanna” il cervello, che, come ogni muscolo, se non usato, si atrofizza. Non abbiamo voglia di essere buoni con i nostri genitori? Litighiamoci, è uno stimolo anche quello...
C’è un piccolo segreto molto semplice per aiutare un anziano a non andare alla deriva: parlare e ascoltare, renderlo partecipe della nostra vita e interessarci alla sua per quanto limitata. Oggi mia nonna avrebbe 99 anni. Sarebbe bello averla ancora qui, le chiederei di raccontarmi tutte quelle storie che a 15 anni mi sembravano noiose. Diceva: ‘se fossi stata una scrittrice avrei scritto un romanzo’, se fossi stata più attenta lo avrei scritto per lei.

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