domenica 4 marzo 2007

Consolare...il verbo dimenticato




Prendo spunto (il che significa anche scopiazzare con discrezione) dal libro di Diego Cugia “Zomberos” per parlare di un verbo e rifletterci un po’ su.
Il verbo è “consolare” che significa: sollevare moralmente da uno stato di afflizione, confortare, lenire il dolore dell’altro e quindi aiutarlo a sopportare meglio.
Quante volte negli ultimi anni avete accolto tra le braccia qualcuno che piangeva? E quante volte avete cercato le braccia di qualcuno che sentivate e sapevate avrebbe capito?
E’ vero, piangiamo sempre meno per questa benedetta necessità di essere forti ad ogni costo, sempre e comunque (ma perché, poi?). Oppure, tra le braccia di chi vi siete sciolti in singhiozzi? Chi, che cosa vi consola?
Siamo capaci di “sentire” il dolore dell’altro e “essere” con lui in silenzio, senza dover dare necessariamente suggerimenti, consigli o soluzioni?
Abbiamo mai consolato qualcuno che non amassimo, al quale non fossimo legati? Abbiamo mai consolato un estraneo?
A me piacciono le parole di Cugia: “Consolare è morire in un altro, con un altro, per un altro, accogliendolo dentro di te con tutte le sue asprezze e le sue diversità, le opinioni divergenti, i giudizi che non collimano con i tuoi; e rispettandolo – come rispettassi te stesso – confortarlo, incoraggiarlo, consolarlo. Ne sono capaci i santi e, involontariamente, alcuni amici dell’uomo che, avvertendo l’onda d’urto del dolore, si strusciano a noi cercando di farci schermo col loro corpo caldo, ma la cosa più struggente è quando chi consola è uno che non è mai stato consolato”.
Quanto poi ad essere capace di farlo, beh, questo è un altro paio di maniche. Ma vale la pena di soffermarsi, di riflettere. E se vorrete rendermi partecipe delle vostre riflessioni beh, ne sarò onorata.

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